Donare è salvare: parola di mamma

 In DIRE, Storie vere
Non scorderò mai il giorno in cui, per la prima volta, ho sentito parlare di ‘trapianto di midollo osseo’. Avevo mio figlio Manuel – di tre anni – in braccio, mio marito al mio fianco. Lo guardai e pensai: “Una malattia così grande in un bambino così piccolo…”. La convinzione che la vita abbia uno scopo credo sia radicata in ogni fibra del nostro essere, una sorta di ‘proprietà’ di noi esseri umani: le donne e gli uomini liberi del proprio tempo danno a questi scopi molti nomi, discutono e pensano molto sulla loro natura. Ma per noi la questione fu più semplice: il nostro obiettivo era trovare un donatore volontario di midollo osseo. Ne valeva la vita di Manuel. Non ci curammo d’altro. Dietro a questa meta non c’era altra meta. Per una mia propensione naturale sono semprestata portata a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma in quell’occasione fui molto cauta. Pensavo: “Chi, nel mondo, vorrà aiutare una persona senza nemmeno conoscerla? È una  donazione che richiede sicuramente un sacrificio da parte del volontario… andare in ospedale, sottoporsi ad anestesia totale…” Credevo fosse una follia, soprattutto perché era il 1991 e di donazione di midollo osseo se ne sentiva parlare solo tra noi familiari di malati e in ambito ospedaliero, in particolare nelle ematologie.
Ero preparata al peggio, se mai – per assurdo – una madre possa prepararsi alla morte  di un figlio. La notizia che in Inghilterra c’era la donatrice compatibile arrivò come un raggio di sole, in una giornata di dicembre. Iniziarono i preparativi per il trapianto. Dopo tanto aspettare, improvvisamente tutto si svolse in gran fretta: il 31 gennaio 1992 Manuel, nella camera sterile dell’Ospedale di Brescia, aspettava il  dottor Fulvio Porta, partito per l’Inghilterra da dove sarebbe ritornato con la sacca di midollo osseo donato dalla giovane volontaria. Attendemmo. C’era un silenzio intenso, sembrava di stare in un acquario, come nei sogni. E il nostro si stava avverando. Erano le 20 quando arrivò il dottor Porta: l’infermiere gli andò subito incontro, aprirono la valigetta e avvolta in un telo, come fosse un bambino, c’era la sacca di midollo. La collegarono al catetere venoso centrale di Manuel e, goccia a goccia, iniziò a entrare nel suo corpo, mentre lui giocava con un puzzle. Ci chiese, candidamente: “Adesso guarirò?”.
Sì, Manuel ce l’ha fatta: ora ha vent’anni, una vita assolutamente normale, come quella dei suoi coetanei. Ci accompagna sempre il ricordo di quei giorni, con il nostro ringraziamento alla vita e a tutte quelle persone di buona volontà che contribuiscono a far sì che il mondo sia migliore. Grazie a quella sacca arrivata dall’Inghilterra ho capito che l’amore tra le persone esiste, non è una favola. È questo che voglio testimoniare e, con grande umiltà, continuo a farlo tra i giovani, nelle parrocchie, nella mia famiglia e tra i miei amici. Perché donare il midollo osseo può davvero salvare una vita e, spesso, è la vita di un bambino. Parola di mamma!

 

Paola  Massarelli
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